lunedì 19 settembre 2016

IL LUTTO PERINATALE è ANCORA UN TABù? RIFLESSIONI DI ERIKA ZERBINI






Con enorme piacere ospito uno scritto di Erika Zerbini, mamma e blogger (Professionemamma.net) della quale ho letto alcuni bellissimi testi e articoli sulla sua esperienza di lutto perinatale. E' autrice di "Nato vivo"; "Questione di biglie"; "Professione Mamma". 

Erika nella sua simpatia e semplicità si presenta così: 
 
"Tris mamma per chi mi vede, penta mamma per chi mi conosce.
Lungo il mio viaggio nella maternità sono incappata nella morte.
 Non lo avevo previsto, né mai davvero pensato possibile. Tuttavia è accaduto e ho dovuto imparare un modo nuovo di essere mamma, un modo diverso e difficile da immaginare"

IL LUTTO PERINATALE è ANCORA UN TABù?
  RIFLESSIONI DI ERIKA ZERBINI

"Forse pochi sanno che nella nostra specie, la specie umana, il periodo di vita in cui rischiamo maggiormente di morire è quello che va dal concepimento alla nascita. E' nelle prime 12 settimane gestazionali che il tasso di mortalità è particolarmente elevato: proprio in questo periodo avviene infatti circa l'80% degli aborti spontanei e il 30% delle gravidanze si interrompe già prima della 6 settimana di gestazione.
Anche un embrione apparentemente sano e del quale sia stata documentata la vitalità (regolare attività cardiaca) ha una probabilità di morire pari al 5-10% finché non sarà superata la fatidica 12esima settimana. Sulla base di questi dati e del rischio globale di morte in utero, potremmo vedere i nostri neonati come autentici "sopravvissuti" e festeggiarli per lo scampato pericolo."
Dott. Filiberto Di Prospero, Salutedonna.it, 20 luglio 2013

La morte di un figlio durante l’attesa, durante o subito dopo il parto, sembra essere un evento raro, una casualità nefasta estremamente circoscritta, tanto da non essere considerata, nominata, espressa.
In verità si tratta di un evento tutt’altro che raro.
Si tratta di un evento estremamente difficile da affrontare sia perché particolarmente doloroso, sia perché sconosciuto.
 La morte in attesa è uno dei tabù più radicati nella nostra società: di un figlio morto durante la gravidanza non si parla, non si racconta, non si mostra il dolore, più facilmente si avverte la vergogna di non essere stati capaci di generare un figlio vivo. L’assenza di notizie e nozioni su questo evento lasciano un profondo vuoto di pensieri e di parole con cui offrire dei confini alle forti emozioni che investono i genitori all’annuncio della morte del proprio figlio.
Dal momento in cui è evidente che il figlio in attesa è morto, tutto intorno alla famiglia muta: non c’è più un figlio, bensì un embrione o un feto. Non ci sono più due genitori, bensì una donna e un uomo. Non si è di fronte ad una famiglia a cui è stata annunciata la morte del figlio che attendevano, ma si è di fronte ad una donna che deve espellere un corpo estraneo, quindi ad una coppia che può ritentare, sperando di essere più fortunata.
Un tale cambiamento nell’atteggiamento e nelle parole genera una profonda contraddizione, talvolta causa di grande disagio poiché non ci si sente legittimati in quanto genitori e legittimati nel dolore che si sta sperimentando, inoltre è sminuito il valore di quel figlio che, in quanto morto, può essere ignorato, ridefinito, sostituito, dimenticato e perfino rimosso.
Da sempre i figli muoiono durante l’attesa, ma solo negli ultimi anni sta emergendo il bisogno di socializzare il dolore per la loro perdita, un dolore che in passato usava essere tenuto privato.
Le ragioni di questo cambiamento dipendono da come è mutata la famiglia e il ruolo dei figli al suo interno.
Oggi i figli non sono più l’espressione di una vita sessuale attiva, non sono più la normale evoluzione dell’essere umano, piuttosto sono di sovente una scelta. Essi vengono dal desiderio di diventare genitori, dal desiderio di crescere e accudire un bambino. Molto spesso il desiderio di genitorilità ha radici lontane, fin dall’infanzia, in cui ci si immagina e si aspira a diventare mamma e papà.
Altrettanto spesso, tutta la crescita e le scelte compiute durante l’adolescenza e la giovinezza vanno nella direzione di creare le condizioni migliori per potersi finalmente dedicare a procreare figli a cui garantire il meglio possibile.
Un figlio in attesa dunque, non è un mero grumo di cellule, un’idea di futuro o un progetto possibile, piuttosto rappresenta la realizzazione di un sogno e di aspettative a cui si tende da sempre. 
Il sogno oggi si concretizza effettivamente non solo attraverso i movimenti che la mamma avverte dentro di sé e che tutti gli altri possono seguire osservando la superficie del ventre materno, oggi quel bambino è un volto preciso, mani e piedi, un cuore che batte davvero, è una persona reale, osservata attraverso lo schermo dell’ecografo. Dopo poche settimane è possibile già conoscere il suo sesso, dunque è possibile già immaginarlo nella propria vita in un modo estremamente realistico.
Le aspettative intorno all’attesa non sono solo aspettative costruite dal desiderio e la volontà dei genitori, anche la nostra società consumistica fa ampiamente la sua parte.
Ovunque ci si giri, dalle pubblicità sui cartelloni nelle strade, alle vetrine dei negozi, agli spot in TV e così via, il messaggio che arriva è che diventare genitori sia una gioia irrinunciabile e che sia sufficiente desiderare un figlio per averlo.
Così, quando ci si trova con il test positivo in mano, è l’inizio della genitorialità: una fase della vita idilliaca, durante la quale adottare alcuni accorgimenti, sottoporsi a tutti i controlli e dopo nove mesi si potrà stringere fra le braccia il proprio sogno.
Viste queste premesse, oggi non è più possibile negare che la morte di un figlio durante la gravidanza non sia a tutti gli effetti un lutto. Essa è un lutto molto particolare poiché riguarda la morte di un figlio dentro il corpo della madre. Si tratta della morte in un momento della vita che ancora non è considerato vita. Si tratta della morte di un figlio che nessuno ha visto, o conosciuto. Si tratta della morte di un figlio che non è ancora considerato tale a tutti gli effetti. Proprio per le sue peculiarità questo lutto acquisisce una definizione particolare: lutto perinatale.
I genitori sofferenti per la morte dei loro figli, durante la gravidanza o subito dopo la nascita, si dicono genitori colpiti dal lutto perinatale.
L’esperienza di lutto perinatale riguarda la famiglia nella sua interezza, quindi anche i figli che già ci sono, i quali non vedranno giungere i fratelli che attendevano, i nonni, gli zii, ecc. Riguarda anche la famiglia per come diventerà: la consapevolezza di come la morte sia effettivamente un fatto possibile, perfino in un periodo della vita nel quale pare essere impensabile, impone di esplorare territori finora sconosciuti e di trovare nuovi modi per pensarsi famiglia. Non più la famiglia a cui si aspirava e verso cui si stava andando incontro, ci si trova obbligati a fare senza i figli morti, ci si deve reinventare. Ciò obbliga necessariamente ad un cambiamento profondo che si ripercuoterà nel futuro della famiglia, quindi anche su eventuali altri figli che la comporranno.
È necessario e urgente occuparsi adeguatamente dei genitori in lutto: superare la negazione di un evento tutt’altro che raro, utilizzare parole adeguate in grado di offrire i primi confini ad una situazione nemmeno immaginata, mostrare una sensibilità capace di legittimare i genitori, il loro figlio (o figli) e il loro dolore, offrire le informazioni utili ad incanalare già l’elaborazione del lutto su un binario adeguato alla sensibilità dei genitori. Per esempio è importante informare sulla possibilità di offrire sepoltura al proprio figlio.
Occuparsi dei genitori in lutto significa occuparsi di intere famiglie, significa occuparsi della salute della società.

AUTRICE: ERIKA ZERBINI settembre 2016

http://www.professionemamma.net/

IMMAGINE: Jean-François Millet 1858/1859. Museo D'Orsay, Paris

"L'ANGELUS di JEAN-FRANCOIS MILLET"

"L'Angelus" è ritenuto il dipinto più "sentimentale" dell'artista. Le voci ufficiali ritengono ritragga la preghiera di una coppia per il magro raccolto. Il pittore Salvador Dalí, che si interessò moltissimo a questo dipinto, era invece convinto rappresentasse la scena di un funerale, con la coppia in lutto per il loro bambino morto. Su sua insistenza il quadro venne sottoposto ai raggi X provando l'esistenza di una piccola bara dipinta sopra il cesto di patate. Un elemento importante del racconto e che forse spiega l'ossessione di Dalì per questa opera, talmente forte da spingerlo a scrivere un libro a riguardo, è che l'artista catalano venne al mondo 9 mesi esatti dopo la morte del fratello maggiore "Salvador" del quale portò poi il nome. Il lutto dei suoi genitori era molto profondo e probabilmente non fu mai elaborato. All'età di 5 anni, Dalì fu condotto da questi sulla tomba del fratello dove gli venne detto di esserne la reincarnazione, idea della quale lui stesso finì per convincersi. Di suo fratello, Dalí diceva: "Ci somigliavamo come due gocce d'acqua, ma rilasciavamo riflessi diversi. Probabilmente lui era una prima versione di me, ma concepito in termini assoluti". (Novella Buiani, settembre 2014)

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